Teatro

Alessio Boni: 'Dopo Caravaggio e Walter Chiari ora sono...Dio'

Alessio Boni
Alessio Boni

"Non ho mai fatto questo mestiere per una copertina, ma per arricchirmi dentro".

Alessio Boni è Dio. Esagerato? No, è davvero Dio. Lo porta in scena in coppia con Alessandro Haber ne "Il visitatore" di Eric-Emmanuel Schmitt, testo tradotto in oltre 15 lingue e rappresentato in 25 Paesi del mondo (in Italia l’unica versione è stata con Kim Rossi Stuart e Turi Ferro nel 1996).

Nello spettacolo Dio (Boni) fa visita a Freud (Haber), l’agnostico padre della psicanalisi, qui colto nella fase finale della sua vita in cui è vecchio e malato alla vigilia dell'invasione dell'Austria da parte di Hitler.  
Una sfilza di premi per l’attore di Sarnico (BG), il cui accento fa ancora capolino in alcune vocali. Un passato da piastrellista, cameriere, pony express, baby sitter, animatore e poliziotto, fino all'inizio nel 1988 come attore di teatro.  Sembra anche questo un film. Eppure è la vita di Alessio Boni, che comunque ha in tasca un diploma alla prestigiosa Silvio D'Amico. Il primo grande successo i arriva nel 2003 con “La Meglio Gioventù” film di Marco Tullio Giordana; nel 2005 gira il film “La bestia nel cuore”, diretto da Cristina Comencini, che viene candidato al Premio Oscar 2006 come miglior film straniero. E’ stato Caravaggio e Walter Chiari nelle omonime miniserie di Rai Uno. La scorsa estate ha girato il film "Maldamore”, con Claudia Gerini, Luca Zingaretti, Ambra Angiolini e Luisa Ranieri. E nel frattempo ha fatto carriera ed è diventato Dio, sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti di Milano fino al 17 novembre 2013.


Tanti anni di teatro e poi in un soffio la popolarità in TV. E' la solita vecchia storia della televisione che rende l'attore immediatamente riconoscibile. Quello purista quasi si infastidisce. E tu come l'hai vissuta?
Non ho mai fatto questo mestiere per una copertina, ma per arricchirmi dentro. Certo, quando Marco Tullio Giordana ti propone una parte importante, come fai a dire di no? Se ti dicono: “Vuoi fare Caravaggio?”, come fai a dire di no? Ciò che conta è quello che uno vuole diventare, i valori nel campo che scegli e soprattutto essere felice per questo, il che non significa di successo a tutti i costi.  Se vuoi la riconoscibilità per la strada beh…allora è un problema narcisistico. C'è posto per tutti e contano le scelte che uno fa. Non è il mezzo che conta; la TV è importante, entra nelle case della gente e porta cultura massivamente, più che a teatro in una sala da mille posti. Io sono un purista e non ho mai mollato il teatro, anzi, guai a chi me lo tocca, ma ho rispetto per tutti. Credo che il teatro sia una terapia di gruppo straordinaria, è un dare e avere che deve arricchire reciprocamente, ma soprattutto deve arricchire chi fa l’attore. Se sei un grande, sei un grande ovunque. 


Sono passati 10 anni da "La Meglio Gioventù", il capolavoro di Marco Tullio Giordana. Che ricordi hai, che rapporti hai mantenuto con quel fantastico cast?
Giordana non ha selezionato degli attori, ha selezionato delle anime. Questo è stato il vero valore aggiunto. Poi alcuni di noi erano amici già da prima, per cui la vittoria ce l’avevamo già sul set, al di là di Cannes. Sul set si volava, eravamo gasati, Luigi Lo Cascio arrivava dal successo de “I Cento Passi”. E’ un ricordo meraviglioso, il premio più grande sono quei mesi di girato, una storia che abbiamo amato e sposato tutti.


Ti rivedi quando ti “danno" in TV? Cosa vedi di te dopo anni e dal divano di casa tua?
Si, recentemente mi sono rivisto proprio ne “La Meglio Gioventù”. Io sono criticissimo, soprattutto con me stesso. Mi guardo, mi osservo con attenzione e mi critico: rifarei delle scene, mi sento la voce stridula, non mi piaccio mai. La maturità, poi, mi fa vedere le cose da un’altra prospettiva, ma di base rifarei tutto. Sono esasperante con me stesso.


Sei sul palcoscenico con Haber, che interpreta Freud. Un compagno di scena istrionico che di solito interpreta tutto fuorché gli psicanalisti. Com’è lavorare con lui?
Lo conosco da quattro anni ormai. E' un compagno di lavoro straordinario che lavora anche con 39 di febbre. E’ un professionista  generoso, intenso. Sul palco siamo due gladiatori che lottano insieme, finiamo lo spettacolo sudati: questo è il senso del teatro. Ma il vero valore aggiunto è stato il regista, Valerio Binasco: ha trovato l'essenzialità senza fronzoli, ha innalzato la dicotomia di un uomo in crisi, mostrando Freud in tutta la sua fragilità.


Tanti personaggi portati in vita col tuo volto, tra cui Walter Chiari. Quest'ultimo ha visto una diatriba sulla verità storica del personaggio, pur riconoscendoti la bravura interpretativa. Cosa c'è dietro? E come rispondi?
Ognuno avrà sempre qualcosa da dire, soprattutto se si tratta di un personaggio recente, che la gente ha conosciuto personalmente. 20 anni fa sono dietro l’angolo. Pensa che anche per Caravaggio (uomo di 400 anni fa!), uno mi ha fermato e mi fa: “Ma perché nel Caravaggio non hai messo il rapporto con la città di Napoli? Era fondamentale!”. Io non li ascolto neanche. Inevitabilmente qualcosa devi lasciare fuori, si chiamano sceneggiature.  Per me Chiari è stato un ruolo pazzesco, ho studiato per 5 mesi tutto il possibile, ho visto tutte le sue interviste, ho parlato anche col figlio. In un’operazione come questa cerchi di tramandare la sua essenza, ma cerchi anche una chiave di lettura. E’ stato il ruolo più difficile della mia carriera, mi scivolava via continuamente.  Non è semplice interpretare un uomo che era un caleidoscopio di personalità: depresso, incazzoso, ritardatario, generoso, con le donne più belle del mondo. Un mostro sacro che mi ha fatto tremare i polsi. C’è da dire che la sceneggiatura è stata letta e approvata dalla sua famiglia, che ha dato il consenso alle riprese...quindi qualcosa di giusto evidentemente c’era, no? Simone, il figlio, si è rivisto in tanti pezzi, anzi, ci ha dato anche degli spunti per delle scene. La fiction su Troisi, per esempio, è stata stoppata dalla famiglia. E non se n'è fatto più nulla.